La complessità del linguaggio è guidata dalle necessità dei parlanti

 

 

LORENZO L. BORGIA

 

 

NOTE E NOTIZIE - Anno XVIII – 25 settembre 2021.

Testi pubblicati sul sito www.brainmindlife.org della Società Nazionale di Neuroscienze “Brain, Mind & Life - Italia” (BM&L-Italia). Oltre a notizie o commenti relativi a fatti ed eventi rilevanti per la Società, la sezione “note e notizie” presenta settimanalmente lavori neuroscientifici selezionati fra quelli pubblicati o in corso di pubblicazione sulle maggiori riviste e il cui argomento è oggetto di studio dei soci componenti lo staff dei recensori della Commissione Scientifica della Società.

 

 

[Tipologia del testo: RECENSIONE]

 

 

La mia coscienza ha mille diverse lingue

e ogni lingua sa una diversa storia

[William Shakespeare, Riccardo III, V, 3]

 

 

Non c’è forse miglior modo che rifarsi a questa suggestiva formulazione di Shakespeare per rendere la complessità psichica, sviluppata attraverso quel linguaggio interno che occupa la coscienza e chiamiamo pensiero, ed espressa con le forme articolate della comunicazione che definiscono i nostri rapporti col contesto umano. La complessità costitutiva dell’essere, che apprende da una molteplicità di esperienze, non può essere resa se non con un linguaggio articolato, meditato, specializzato nel rendere particolarità e differenze; ma, fuori di questa esigenza, nell’esperienza quotidiana sta a noi regolare e calibrare, col grado di profondità e consapevolezza psichica circa i contenuti del discorso, il livello di strutturazione della lingua da adoperare in una conversazione. In molti casi a definire queste caratteristiche è il tipo di rapporto con l’interlocutore, che può andare dalla reciproca identificazione, tipica delle relazioni affettive più strette, alla distanza caratteristica dell’incontro tra estranei.

Nel primo caso è spesso implicito l’oggetto della conversazione, modulato da intenzioni e circostanze, ma sempre sotteso da lunga conoscenza e spesso ricco di luoghi comuni, di gerghi particolari, di locuzioni evocative, di termini che hanno assunto significati speciali in esperienze condivise. Nel secondo caso si va da formule stereotipe di saluto e semplici monosillabi che accompagnano espressioni del viso, a considerazioni generiche e spesso ovvie sul tempo atmosferico o, in questo periodo, sugli effetti della pandemia.

Un altro caso che illustra la regolazione del grado di complessità della lingua è quello dell’adulto che si rivolge a un bambino: gli argomenti non sempre sono dei più semplici e banali, ma si impone una semplificazione necessaria alla comprensione, per la quale non bastano schemi sintattici elementari, ma occorre adeguare le scelte lessicali, scegliendo parole che sicuramente il bambino conosce e proponendo concetti che non richiedano gradi di astrazione troppo elevati per le consuetudini cognitive dell’infante.

 

L’esperienza di parlare ai bambini è all’origine di memorie comunicative universali e, più o meno inconsapevolmente, costituisce nel nostro bagaglio di conoscenze un prototipo di semplificazione, a volte emergente inavvertitamente negli sforzi comunicativi con persone straniere che tentano senza successo di parlare la nostra lingua e si vedono trattare come scolaretti di cinque anni.

Con i bambini nella più tenera infanzia si adoperano “parole sicure”, come quelle che loro impiegano di frequente, ed espressioni passe-partout che rendono genericamente la qualità positiva o negativa (è buono/è cacca). In realtà, la comunicazione con loro richiede costantemente di essere integrata con l’insegnamento di nuovi “nomi di cose” e modi di dire; infatti, si dice che per i genitori comunicare e insegnare la lingua sono una cosa sola. Quando sono un po’ più grandi e bisogna articolare dei veri e propri ragionamenti per dare spiegazioni e risposte, la semplificazione in genere consiste nell’eliminazione di sostantivi, aggettivi, avverbi e congiunzioni ricercati e poco frequenti e che il bambino non usa, e nell’impiego di frasi semplici del tipo soggetto-predicato-complemento, preferendo fare ricorso a più frasi brevi e compiute che a periodi sviluppati con un significato che dipenda troppo dall’articolazione sintattica, in modo che il bambino abbia ancoraggi di significazione nel valore semantico delle parole che conosce meglio. I genitori più bravi cercano di insegnare attraverso la lingua due paradigmi logici fondamentali: il nesso causale e il nesso condizionale.

La semplificazione, anche al di là dell’esempio paradigmatico della comunicazione rivolta ai bambini, rimane un aspetto molto importante nell’uso sociale della lingua, che può essere poco conosciuta o male intesa per un lungo elenco di motivi diversi. Quando Fernand De Saussure, per primo, analizzò la lingua secondo un approccio strutturalista che intendeva oggettivare criteri applicabili a tutte le lingue verbali, definì così la parola: esecuzione individuale della lingua che accomuna i parlanti. Dunque, la parola o verbo, intesa quale azione comunicativa, è tale se è condivisa dalle persone interagenti; in caso contrario, perde valore funzionale e ragion d’essere. Per questo motivo, la semplificazione finalizzata alla condivisione del senso assume notevole importanza nell’uso pratico del linguaggio.

Uno dei modi più usati per rendere più semplice un messaggio verbale e farsi intendere da chi abbia un basso grado di competenza linguistica è usare un sostantivo di uso molto frequente per denominare un oggetto simile che abbia un nome meno noto. Ad esempio, chiamare spada una daga, una sciabola, una schiavona o una scimitarra, oppure dire genericamente frutto per sostituire parole come melograno, maracuja, abacaxi, mirtillo, mango, papaya o goiaba.

Una simile semplificazione si può riconoscere in un fenomeno linguistico legato alle diverse esperienze dei popoli. Ad esempio, negli idiomi del centro Africa si impiega lo stesso termine per la neve e il ghiaccio, mentre in quelli europei si ha una gamma completa di vocaboli per indicare l’acqua allo stato solido, dal ghiacciolo al nevischio, dalla grandine alla brina; nell’idioma degli aborigeni neozelandesi tutti i colori sono denominati con due soli termini, uno traducibile grosso modo con la parola chiaro, l’altro con la parola scuro, ossia due attributi chiaroscurali e non cromatici. Accade anche l’opposto: negli idiomi parlati negli arcipelaghi della Polinesia non esiste la parola pesce, mentre si denominano le singole specie e varietà ittiche che costituiscono esperienza quotidiana nella pesca e sulla tavola. In Brasile hanno sei parole per indicare singole varietà di banana, mentre il termine generico, importato nel portoghese dall’inglese, è poco usato.

Ma il fenomeno più interessante e studiato è quello dell’impiego di uno stesso temine per due significati fra loro prossimi[1], talvolta in rapporto di contiguità semantica (coltello/pugnale), talaltra in rapporto di connotazione/denotazione (tavolo/scrivania), altre volte come aspetti di uno stesso fenomeno (fuoco/fiamma). A questo fenomeno si dà tecnicamente il nome di colessificazione, e lo si studia nelle sue origini culturali, sociali e di ambienti più ristretti o specifici.

Andres Karjus e colleghi hanno studiato con un ingegnoso sistema un’ipotesi avanzata di recente, ossia che, al di là della tendenza generale, le esigenze pratiche possano svolgere un ruolo significativo nel dar forma ai pattern di colessificazione.

I risultati ottenuti sono di sicuro interesse.

(Karjus A., et al., Conceptual Similarity and Communicative Need Shape Colexification: An Experimental Study. Cognitive Science 45 (9): e13035, 2021).

La provenienza degli autori è la seguente: ERA Chair for Cultural Data Analytics, Tallinn University, Tallinn (Estonia); Centre for Language Evolution, School of Philosophy, Psychology and Language Sciences, University of Edinburgh, Edinburgh (Regno Unito).

I pattern di lessificazione cross-linguistica sono prevedibili, in quanto i concetti simili sono spesso colessificati. Su questa base, Andres Karjus e colleghi hanno messo alla prova e verificato se le necessità comunicative abbiano un ruolo diretto nel dar forma agli schemi di colessificazione, usando il paradigma di un gioco di comunicazione basato su un linguaggio artificiale. I ricercatori, attraverso quattro esperimenti, hanno verificato i precedenti risultati cross-linguistici, rilevando che, rimanendo identiche tutte le variabili, i parlanti preferivano colessificare concetti semanticamente simili.

La sperimentazione ha soprattutto evidenziato elementi a sostegno dell’ipotesi delle necessità comunicative: quando costretti ad affrontare la frequente necessità di distinguere fra coppie simili di significati, i parlanti aggiustavano le proprie preferenze di colessificazione al fine di mantenere l’efficienza comunicativa ed evitare di colessificare quei significati simili che, nella comunicazione in cui erano impegnati, necessitavano di una distinzione terminologica.

Presi nell’insieme, tutti i risultati emersi da questo studio, supportano e confermano una tesi classica della linguistica diacronica, ossia che le lingue sono modellate dalle necessità e dalle preferenze dei parlanti.

 

L’autore della nota ringrazia la dottoressa Isabella Floriani per la correzione della bozza e invita alla lettura delle recensioni di argomento connesso che appaiono nella sezione “NOTE E NOTIZIE” del sito (utilizzare il motore interno nella pagina “CERCA”).

 

Lorenzo L. Borgia

BM&L-25 settembre 2021

www.brainmindlife.org

 

 

 

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[1] Si escludono le parole che hanno, per puro caso, due significati del tutto diversi e semanticamente distanti come consolato, lustro, caro, calcio, fattura, accetta, lega, lira, anche, ecc.